Il paradosso dell’ossigeno
Il confronto tra una madre e una figlia nello spazio immobile di un treno fermo in galleria, tra sotterranee affinità e insospettabili prigionie.
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Descrizione
Il Paradosso dell’ossigeno è un esordio, ma sono pagine di assoluta bellezza e intensità. La scrittrice fa un lavoro di scavo interiore, maneggia i sentimenti come si fa con la materia: il viaggio in treno di Aphra e Giulia è anche un’esperienza fisica.
Dalla postfazione di Paola Moscardino
“Il romanzo breve richiede maestria nel fare muovere i personaggi in un piccolo spazio. Valcepina realizza un perfetto connubio delle categorie spazio-temporali. Un treno fermo in galleria, in seguito a un guasto, fa infatti da sfondo al gioco memoriale attraverso il meccanismo che consente di riavvolgere il nastro del tempo. Un susseguirsi di rimandi al passato e ritorno al presente consentono il recupero del tempo perduto. Così, piano piano, vengono chiariti risvolti irrisolti sino allo scioglimento finale. Un “récit” scritto con stile limpido, fluido, scorrevole, coinvolgente”.
Leo Schena, linguista
“L’autrice sceglie un’ambientazione claustrofobica, uno stretto vagone in cui attendere che tutto riparta, dalla motrice guasta alla vita stessa, così facendo imprime ai suoi personaggi una pressione intollerabile, a far portare a galla l’essenziale (…) Lo stile di Lucia Valcepina è delicato, congruamente asciutto, misurato, particolarmente consono al tono intimo, quasi confessionale con cui Giulia e Aphra affrontano ruoli e aspetti dolorosi della genitorialità. Un linguaggio piano, senza concessioni al melenso, a raccontare la potenza anche del più imperfetto rapporto madre-figlia: perché a fine lettura, attraversata ogni battaglia, questo rimane”.
Anna Vallerugo, Border Liber
“La vicenda, semplice a prima vista, si rivela densa, complessa, articolata (…) La narrazione introduce una serie di elementi che sviluppano la relazione tra le due donne e pongono una serie di problemi ponderosi: il distacco, l’autonomia delle scelte, l’adolescenza, il ’68, il legame delle vite singole con la storia collettiva e, con particolare rilevanza, la passione per l’arte”.
Liliana Moro, storica della Libera Università delle Donne
“Difficile separare le varie virtù del racconto da quell’io che, renitente, a singhiozzi, quasi svogliato all’inizio, strappa man mano da sé, come da un malessere, da una nausea (la nausea di una novella gestazione, si direbbe), il suo segreto; e da quel ventre nero, da quel tunnel di ragioni e confessioni solo può uscire dopo aver ri-conosciuto la bambina sotto l’olmo, e averla ritrovata là, nel giardino sospeso, un attimo prima che la memoria svapori. Ma certo se ne avverte la profonda dolente sincerità; e anche per questo la sua lettura è avvincente e avvolgente. Destino, è detta in spagnolo la destinazione di un treno; una parola favolosa da appaiare a un comune viaggio terrestre. Ecco che cosa genera, a volte, Trenord!”
Guido de Monticelli, regista e attore
“La bellezza di questa storia, tra le cui pagine si intravede facilmente qualche foto della nostra autrice, sta tutta nel desiderio che si respira, che si tocca, che si vede materializzarsi pagina dopo pagina, di riavvicinare qualcosa che si era distanziato, un rapporto dato geneticamente per scontato, ma che scontato non è mai”.
Claudio Della Pietà, Gli Amanti dei Libri
“La narrazione è delicata, bella. Ha stile, la scrittrice. Il lettore segue il passo delle protagoniste senza fiatare, ogni suo fiato potrebbe spezzare il momento delle parole. Questo pensa il lettore che va avanti con gli occhi per seguire una storia che potrebbe appartenere a tutti”.
Lucia Accoto, Emmepress
“Il romanzo riesce a coniugare la bellezza rarefatta della forma con la riccchezza tangibile del contenuto, ad analizzare cose grandi in un contesto d’intimità. Lo stile è sobrio, elegante, impreziosito da citazioni colte ma calate nella contemporaneità. Il rapporto tra le due donne è così intenso da renderci partecipi pagina dopo pagina”.
Ivan Mambretti, Il Graffito
Il romanzo
Aphra, ex attrice di teatro, ha avuto tanti volti nella vita e oggi deve fare i conti con la confusione. Sua figlia Giulia è in un momento cruciale della sua esistenza, ora che il passato sembra riemergere e costringerla a una scelta definitiva. Un mattino d’autunno, le due donne salgono su un treno diretto a Milano, ma il convoglio si ferma nel buio di una galleria a causa di un guasto. Mentre lo spazio si fa claustrofobico e l’immobilità diventa una pagina bianca su cui scrivere, madre e figlia scoprono una vicinanza inaspettata attraverso sotterranee affinità e insospettabili prigionie.
«Tiriamo la tenda, dimentichiamo la galleria» mi dice Aphra, e la sua espressione si fa tesa. Ha l’aria di chi aspetta una notizia da anni, sa che il momento è arrivato e dubita di essere pronta.
Ci sono pochi, pochissimi elementi, nel romanzo d’esordio di Lucia Valcepina. Bastano Aphra e Giulia, una madre e una figlia sedute una di fronte all’altra sui seggiolini di vagone di un treno in viaggio verso Milano, in una fredda mattina di novembre. Il riflesso dei loro profili sul finestrino quasi svanisce quando, a causa di un guasto, il treno si blocca nel buio di un tunnel. Costrette all’attesa, le due donne cercano di dare un senso alla pausa forzata, concedendosi un’attività che evitavano da tempo: si raccontano.
C’era un fondo di crudeltà in quella bellezza, qualcosa che ti rapiva e ti scorticava per poi abbandonarti, ecco perché era così difficile farne a meno, e ora guardo l’anziana che ho di fronte e mi chiedo che cosa sia rimasto di quella donna, di quel fiore di carne spudorato.
L’esordio letterario di Lucia Valcepina è un Kammerspiel, ricco di immagini suggestive e dialoghi serrati, in cui si assiste al confronto irreversibile tra gli abissi interiori di due donne tanto diverse ma in qualche modo incastrate nello stesso, inaspettato destino.
Tanti i temi trattati nel romanzo: dalla famiglia all’arte del teatro, dalla malattia all’emancipazione di chi vive in una condizione di precarietà nei sentimenti come nel lavoro. Su tutti questi temi emerge una riflessione sul tema della maternità raccontata nella sua duplice natura, paradossale appunto, che, come l’ossigeno, dona la vita ma che, nel caso specifico delle due protagoniste, può farsi anche forza distruttiva:
L’ossigeno è la fonte atmosferica della vita e, al contempo, la principale causa di degenerazione e morte delle cellule. La sua duplice natura, con il relativo processo di creazione e distruzione, è nota come il “paradosso dell’ossigeno”.
Questo romanzo è, più in profondità, una riflessione sulla natura ambigua dei rapporti umani, sull’impossibilità di liberarsi di alcune prigioni interiori, e sulla possibilità di imparare a conviverci.
Un romanzo breve, potentissimo, dove la staticità apparente della prima parte viene stravolta, ribaltata con lo scorrere delle storia, lasciando spazio nelle ultime pagine, non a un lieto fine, ma a una chiusura in cui il lettore, insieme alle sue due protagoniste, può tornare ad ammirare la luce e i colori del paesaggio dal finestrino del treno.